martedì 22 marzo 2016





LAOS è l’acronimo di “Lovers And Other Strangers”. Questa scritta compare nel ciak del film girato all’interno del film, come un doppio metalinguistico.
“Lovers and other strangers” è anche il titolo di una mostra di Jack Vettriano – artista che dà al film una buona parte del riferimento pittorico. All’interno del film troviamo delle inquadrature inspirate ai suoi dipinti.

I dialoghi hanno un tono decisamente ironico e surreale ma solo come effetto secondario in quanto si tratta di discorsi seri e sinceri perché provengono dalla realtà.
I personaggi, che sembrano astratti dalla realtà, si raccontano, attraverso delle sedute psicoanalitiche ma anche nell’incontro con una cartomante. Le loro storie oscillano tra il tragico e il comico e risultano talmente assurde all’occhio dello spettatore da sembrare un’ironia. Tutto questo condensa e semplifica temi filosofici che inducono ad una riflessione sull’esistenza umana. 

Tra i temi principali del film, oltre al dualismo Eros e Thanatos (pulsione di vita e pulsione di morte) troviamo l’indagine della pazzia. C’è una domanda che aleggia nel film: la differenza tra il normale e il patologico sta nella quantità o nella qualità?

Tutti i personaggi partecipano in diversa misura dell’amore, della morte e della pazzia. E non abbiamo una divisione manicheista netta tra paziente e dottore: il dottor Bernardo diventa un paziente con la Dott.ssa Chiara, che diventa “paziente” di fronte alla cartomante. 

Si avverte la necessità di una figura di riferimento su cui riporre la propria fiducia. Non si mettono sullo stesso piano psicanalisi e cartomanzia ma c’è un accento sull’intimo bisogno di essere ascoltati, assecondati e guidati.

Tutto si svolge in due studi psicoanalitici, quello del Dott. Bernardo e della Dott.ssa Chiara, che si specchiano l’uno nell’altro e hanno come eco di questo doppio la cucina della cartomante, luogo archetipico dove letteralmente e metaforicamente c’è sempre qualcosa che bolle in pentola. 

Il doppio, altro tema del film, in un’ottica psicoanalitica, appare come rappresentazione del meccanismo di difesa contro la paura della morte, che vediamo nei personaggi e si riflette nello spettatore.

I riferimenti musicali dei classici del jazz anni ’50 reinterpretati in modo essenziale e minimalista non sono solo una colonna sonora di fondo, ma sono personaggi aggiunti alla sceneggiatura che conducono ad andare avanti in questi racconti eccessivamente umani dotati di una sincerità priva di censura.

Lo schema fotografico molto particolare per ogni ambiente diverso, oppone colori caldi a quelli freddi, colori vivi ai neutri, e crea non solo il ritmo del film, ma anche caratterialmente i personaggi, attraverso i colori e la forma dei loro costumi, inseriti in quest’ambiente essendo i colori stessi complementari o monocromatici in riferimento all’ambiente.

Un’assenza quasi totale di movimento di macchina e le inquadrature costruite come dipinti completano l’atmosfera onirica e teatrale, come un secondo strato della rappresentazione della vita, mimesis della mimesis, in una relazione triangolare: soggetto, mediatore, oggetto.

Si avverte nella messa in scena una sensazione atemporale, di non sapere bene dove e in che momento siamo. Questo anacronismo ci permette di poter raccontare le vecchie storie umane di amore, morte e pazzia all’interno “dell’invenzione dell’uomo”.

Come nella fenomenologia, l’importante non è quello che accade, ma il vissuto del “singolo” e il racconto di questo vissuto. Per questo la scelta di lunghi monologhi senza contro campo e la macchina da presa fissa, incollata nelle più intime storie che quei personaggi ci stano raccontando.


Il film non ha un finale classico che chiude le storie perché la vita va sempre avanti e non è possibile allo spettatore sapere cosa succederà ai personaggi. Allo stesso modo non è possibile conoscere il futuro, cosa che pensava Madame Corina prima di impazzire in un finale di matrice felliniana.